Vivere off-grid

Vivere off-grid

Arriva sempre quel momento nella vita in cui dici: Basta, adesso mollo tutto e apro un chiringuito ai Caraibi! Chi non l’ha pensato, almeno una volta? E anche se la fuga dalle città è sempre di moda, in un’epoca che va a 200 all’ora verso il futuro, i desideri ormai sono cambiati e spingono nella direzione “high tech”: una bella casa off-grid! Di cosa stiamo parlando, direte voi? Letteralmente con il termine Off-grid si fa riferimento a una casa fuori rete (senza gas, elettricità, sistema fognario e connessione a internet), quindi a un’abitazione totalmente scollegata da ogni tipo di rete e indipendente in ogni aspetto, che si alimenta sfruttano solamente gli elementi rinnovabili, come il sole, il vento e la pioggia, così da non consumare e non inquinare.

Per alimentarsi, le case off-grid utilizzano l’elettricità autoprodotta con le fonti rinnovabili, come ad esempio il fotovoltaico. In realtà, oltre ai pannelli solari, queste abitazioni possiedono anche delle batterie per accumulare corrente in accesso ed utilizzarla nei periodi di minore irraggiamento o durante la notte. Essendo totalmente scollegate dalla rete, è indispensabile installare un impianto fotovoltaico con accumulo e non uno tradizionale.

Quindi, quali sono i punti forti di un immobile off-grid?

1) La raccolta di calore con i pannelli solari a tubi per produrre acqua calda a partire da tale calore ottenuto. Si tratta di utilizzare materiali che possano ridurre al massimo i consumi.

2)L’elettricità prodotta in questo luogo deriva solo ed esclusivamente da fonti inesauribili e rinnovabili ed è sufficiente per alimentare un’intera casa e soddisfare il fabbisogno.

3)Per realizzare queste case si sfruttano per il 45% di materiali riciclati. Si tratta di dare nuova vita a componenti che altrimenti andrebbero eliminate.

4)Il tetto è costruito in modo tale da convogliare l’acqua piovana in una cisterna di raccolta. Qui il flusso viene filtrato e trattato finché non diventa idoneo all’utilizzo potabile e non. Raccogliendo l’acqua si riescono a svolgere tantissime attività quotidiane senza il bisogno di ricorrere a fonti esterne. Da qui si raccoglie anche acqua non potabilizzata ma filtrata, usata ad esempio per lavare i piatti, per fare la doccia o anche per alimentare un terreno e una coltivazione.

Vivere in una casa off-grid è una scelta coraggiosa ma conveniente, da diversi punti di vista. Si tratta di abitazioni, spesso realizzate in legno, un materiale che permette di limitare al massimo i consumi grazie alle proprietà isolanti e traspiranti, con un prezzo molto diverso rispetto a un appartamento o a una casa tradizionale.

Infatti, di solito, per una casa off-grid basica si spendono tra i 7mila e i 10mila euro. Ma, per modelli più sofisticati e innovativi, si possono arrivare a spendere anche 70mila o 80mila euro.

In Italia, purtroppo, non è ancora possibile vivere in una casa completamente indipendente e autosufficiente a causa di alcuni regolamenti che vincolano il concetto di abitabilità alla dipendenza dalla rete. In questo Paese il processo per l’approvazione dei principi alla base delle abitazioni off-grid è ancora in corso di approvazione. Un primo passo importante può essere costituito dall’acquisto e dall’installazione di un impianto fotovoltaico. Infatti, anche se non si raggiunge la piena e completa indipendenza, i pannelli solari consentono di ridurre notevolmente le emissioni e di abbassare i costi di bolletta in maniera significativa. Se il desiderio è di inserirsi nella transizione ecologica e di diventare sostenibili, gli impianti solari diventano un ottimo alleato nell’attesa di poter trasformare la propria casa in una vera e propria abitazione off-grid.

Per i sogni, in Italia, c’è sempre tempo, purtroppo. Almeno quando ci si mette di mezzo la burocrazia e la mancanza di una visione coraggiosa. Ci toccherà aspettare i passi delle nazioni più all’avanguardia, per poi salire, come al solito, sul carro dei vincitori. Comunque, la sensazione è che il futuro non sia mai stato più vicino di adesso. 

Mammamia è una Sushimania

Mammamia è una Sushimania

Ormai è un dato di fatto, la tanto amata e celebrata cucina italiana non ha più l’esclusiva sulle nostre tavole. Ci stiamo lasciando sedurre da piatti esotici, provenienti da paesi lontani: da quelli piccanti del “messicano”, a quelli speziati dell’”indiano”, da quelli saporiti del “cinese” fino a quelli agrodolci del Marocco. E i ristoranti sono sempre pieni! Ma c’è una cucina che spazza via tutte le altre concorrenti dal cuore e dal palato di noi italiani: quella giapponese. È ormai a tutti gli effetti Sushimania, dove a farla da padrone sono il salmone e l’avocado. Quanto li amiamo! Specialmente uniti in un sol boccone, magari bagnati dalla soia, zeppa di wasabi.

Ma questa nuova moda culinaria ha un prezzo? Certo che sì, e non solo economico, ma soprattutto sul piano della sostenibilità. Quanto danno recano le coltivazioni di questi due “fenomeni da ristorante” all’ambiente mondiale?

Cominciamo con l’avocado.

Sarà complice il nome esotico e il sapore delizioso, ma questo frutto è arrivato sulle nostre tavole e, soprattutto, nei menù dei ristoranti, per cui ormai un brunch domenicale non è tale senza un avocado toast, sia nella versione “veg” che abbinato al salmone. Il successo di questo alimento nasconde, però, ombre non indifferenti. In primis, la grande quantità d’acqua richiesta per la sua coltivazione, secondo, quanto calcolato dall’Università di Twente nei Paesi Bassi, la produzione di avocado ha un costo idrico molto elevato. Si stima, infatti, che 500 grammi di frutta richiederebbero 272 litri d’acqua, considerando che una mela di 100 grammi ne necessita 70 e la lattuga 20. Inoltre, la domanda europea, costante e in crescita, sta mettendo seriamente in difficoltà le aree agricole dei paesi di coltivazione, prevalentemente il Sudamerica. In dieci anni (2012-2022) la produzione è quintuplicata, le esportazioni decuplicate e moltissimi terreni dedicati a più tipi di coltivazione differenti sono stati trasformati in monocolture. In più, in tutta l’America Centrale e Meridionale, l’aumento di domanda di avocado dall’estero ha fatto sì che anche molte terre vergini e foreste fossero trasformate in piantagioni.

Tuttavia, esistono delle alternative sostenibili sia dal punto di vista ambientale che umano.

Primo aspetto da considerare è la stagionalità: la raccolta dell’avocado comincia a ottobre per le varietà Zutano, Fuerte e Bacon e prosegue con la Hass (quella oggi più diffusa) da gennaio fino ad aprile, al massimo fino al mese di maggio. Questi sono i periodi in cui è possibile acquistare e consumare avocado fresco, durante il resto dell’anno è molto probabile che il prodotto che troviamo nel supermercato non sia effettivamente sostenibile.

Anche la provenienza del frutto può aiutarci a scegliere un alimento che ha meno impatto sull’ambiente. Infatti, non esistono ragioni per cui l’avocado non possa essere coltivato lontano dal Sudamerica: ne sono testimonianza i 10.000 ettari di terreni ad esso dedicati in Spagna e i 260 ettari in Sicilia. In questa Regione si è scelto di investire in un prodotto biologico, di qualità e sostenibile.

Tocca adesso al salmone, e anche con questo animale così particolare, la storia non cambia.

Un salmone selvatico, grazie alla sua alimentazione naturale, ha carni di un colore rosato e uniforme, e nasce con l’incredibile propensione che lo porterà a risalire lo stesso fiume in cui è nato. Questo suo comportamento, insieme al fatto di aver vissuto tutta la vita in mare aperto, determina un basso tasso di tessuto adiposo. I salmoni di allevamento, invece, non godono di queste caratteristiche. Nutriti con mangimi a base di altri piccoli pesci, cereali e soia, la loro carne è molto più sbiadita. Questo non è ammissibile in un mercato che utilizza il colore della carne come primo criterio di valutazione della qualità del salmone. Ecco che per il pesce allevato è diventata ormai la prassi aggiungere coloranti e additivi in modo da accontentare l’occhio del cliente. Inoltre, fortemente limitati nei loro movimenti, i pesci allevati risultano essere molto grassi e, se la loro dieta è ricca di vegetali, presentano percentuali minori di quegli omega-3 tanto importanti anche per la nostra salute.

Gli allevamenti intensivi, inoltre, nascono con lo scopo di produrre tanto col minimo sforzo. Gli animali vengono quindi ammassati in spazi ben al di sotto di quanto avrebbero bisogno, e quel che ne deriva è un aumento dello stress, dell’aggressività e delle patologie. Di conseguenza, per ridurre la trasmissione di malattie nell’allevamento, i pesci vengono alimentati con mangimi ricchi di antibiotici. Con il risultato che consumare alimenti provenienti dalla maggior parte degli allevamenti intensivi contribuisce ad aumentare l’antibiotico-resistenza nella popolazione.

Lo spreco idrico è altrettanto drammatico: gli allevamenti ittici sfruttano grandi quantitativi d’acqua che provengono dai fiumi riducendo così le disponibilità per l’agricoltura e la popolazione locale.

Ogni volta, dunque, arriviamo alla triste conclusione che il più grande nemico della sostenibilità sia l’uomo stesso, che prepone sempre il proprio piacere e il divertimento alle responsabilità, senza rendersi conto che “La più grande minaccia al nostro pianeta è la convinzione che lo salverà qualcun altro” (cit. Robert Swan).

Meditate gente, mediate.

Sustainable Fashion VS Fast Fashion

Sustainable Fashion VS Fast Fashion

“La vedi questa camicia? Era di mio nonno, ha 40 anni. È la mia preferita! Sembra ancora nuova”

“Lo vedi questo top? L’ho comprato ieri, e credo proprio che non lo indosserò più domani”.

 

I dati parlano chiaro, la moda sostenibile sembra essere passata dall’essere un vezzo di pochi ad una scelta consapevole per molti consumatori nel mondo del fashion.

L’Italia è indubbiamente tra i paesi più in linea con questa tendenza. Il made in Italy, da sempre sigla rappresentativa di un lifestyle esclusivo e apprezzato in tutto il mondo, nonché sinonimo di alta qualità, è sempre più ricercato. Secondo recenti ricerche risulta che più della metà della popolazione italiana si rifiuterebbe di acquistare un prodotto d’abbigliamento da una casa di moda che non abbia delle linee etiche e ambientali ben precise.

La moda è uno dei settori ad avere maggior impatto ambientale: ne è una prova il fatto che essa è la causa dell’inquinamento del 20% delle acque potabili globali. Per questo motivo moltissimi consumatori oggi si orientano verso scelte maggiormente responsabili per la società e l’ambiente che le circonda. Questa particolare attenzione è propria, in particolar modo, della generazione Z, la quale, sempre attiva sui social, guarda alla sustainable fashion con sempre maggior interesse. Basti pensare alla crescente popolarità dello stile “old money”, che su Tik Tok è stato trasformato in un vero e proprio trend virale, e che sta ad indicare coloro che aspirano alla creazione di uno stile che rifiuta apertamente la caducità del fast fashion per un modo di vestire ispirato al passato, esclusivo e dalla qualità altissima.

Di altrettanto successo è il mercato secondhand che, come mostrano recenti ricerche, rappresenta già dal 3% al 5% del settore complessivo dell’abbigliamento, e potrebbe crescere fino al 40%. Sebbene gli articoli di seconda mano costituiscano circa un quarto degli armadi degli acquirenti di pezzi pre-loved, si prevede che nel 2023 costituiranno il 27%. A sceglierli sono ancora una volta i consumatori della Generazione Z, i più propensi ad acquistare (31%) e vendere (44%) articoli di seconda mano, seguiti dai millennial. Il 40% degli acquirenti considera l’usato come un modo per consumare moda in modo sostenibile, e altrettanti consumatori scelgono questo mercato per l’ampia scelta e i pezzi unici che offre. Anche il ‘brivido della caccia al tesoro’ e l’opportunità di negoziare con i venditori sono fattori sempre più popolari per l’acquisto di abbigliamento di seconda mano.

Di questo stesso stampo sono anche siti, già di tendenza da alcuni anni, come Vinted e Vestiaire Collective, i quali permettono ai loro utenti di vendere e acquistare in totale libertà. Quindi, se acquistare meno è acquistare meglio come si spiega un fenomeno globale come quello di Shein?

Per chi non lo conoscesse Shein è un negozio online di abbigliamento a basso costo che in pochi anni ha raggiunto e superato le maggiori catene Fast Fashion del mondo. Shein è infatti valutato oltre 30 miliardi di dollari e dal 2020 è diventata la più grande azienda di moda, esclusivamente online, del mondo. Si tratta di un marchio decisamente economico, motivo che lo ha reso così popolare, che vende vestiti che arrivano a costare pochi euro l’uno. In molti si sono chiesti come il colosso cinese possa produrre questi abiti a prezzi così bassi e la risposta è che purtroppo a farne le spese sono i suoi lavoratori. Questi, infatti, lavorano fino a 18 ore al giorno, 7 giorni su 7 e sono pagati 3 centesimi a capo di abbigliamento. La fonte di questi dati è il documentario investigativo “Untold: the Shein Machine” che mostra, grazie ad una donna sotto copertura, cosa significhi davvero lavorare in una fabbrica che produce abiti per quel marchio.

Le contraddizioni nel mondo della moda, dunque, sono molte e seppure l’attenzione alla sostenibilità sia sempre più diffusa è anche vero che la continua crescita di colossi come Shein ci deve far riflettere sul fatto che un capo seppure più economico per il consumatore diventa un costo insostenibile per il pianeta in termini di risorse, inquinamento e sfruttamento umano.

Noi di Italia Gas e Luce non ci nascondiamo, e stiamo, come sempre, dalla parte del sostenibile. Abbiamo appena visto che con un po’ d’attenzione, ricerca e gusto si può essere alla moda senza svuotare il portafoglio, e soprattutto senza recare troppo danno al nostro pianeta. Tu da che parte stai?

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